Grazia Eleonora Vita, Dottoranda in Scienze Giuridiche presso l’Università di Bologna
Andrea Cerofolini, Dottorando in Scienze Giuridiche presso l’Università di Bologna e Visiting Researcher presso il Nova BHRE Center (giungo-novembre 2024)
Il 12 novembre 2024, la Corte d’Appello dell’Aja ha emesso la sua decisione sul ricorso presentato da Shell contro la sentenza di primo grado che imponeva all’azienda una riduzione del 45% delle proprie emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019 (qui il testo della sentenza). Sebbene la Corte d’Appello non abbia confermato tale obbligo specifico di riduzione, ha riaffermato i principi giuridici fondamentali della sentenza precedente, consolidando l’esistenza di un dovere di diligenza per Shell basato sull’art. 6:162 del codice civile olandese (“c.c.o”). Questo dovere, interpretato alla luce di strumenti internazionali come i Principi Guida ONU su imprese e diritti umani e gli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), impone alle imprese di contribuire agli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
L’OBBLIGO DI DILIGENZA DI SHELL
La Corte ha innanzitutto confermato la legittimazione ad agire dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 3:305 del c.c.o. Tale norma ha permesso ai ricorrenti di agire non solo in rappresentanza delle generazioni attuali residenti nei Paesi Bassi, ma anche di quelle future, confermando così la dimensione intergenerazionale del contenzioso climatico.
Successivamente, i giudici hanno valutato se la mancata riduzione delle emissioni di Shell, richiesta dai ricorrenti, costituisse una violazione del suo dovere di diligenza stabilito dall’art. 6:162 c.c.o. Tale valutazione è stata affrontata dalla Corte attraverso un percorso argomentativo ben strutturato.
In primo luogo, la Corte ha riconosciuto la relazione tra cambiamento climatico e diritti umani facendo puntuale riferimento alla giurisprudenza sul tema (parr. 7.6-7.12) ed agli strumenti internazionali in materia, uno fra tutti la Risoluzione n. 76/300 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che riconosce l’esistenza del diritto umano ad un ambiente sano e sostenibile (par. 7.15). La Corte ha quindi affermato che “that protection from dangerous climate change is a human right” (par. 7.17).
Chiariti questi aspetti, la Corte ha rilevato che, nonostante il diritto olandese riconosca ai diritti umani una portata diretta prevalentemente verticale, questi ultimi possono essere invocati dai cittadini, in una certa misura, anche nei loro rapporti con le imprese private. Facendo riferimento a strumenti di soft law, tra cui i Principi Guida ONU su imprese e diritti umani e le Linee-guida OCSE per le imprese multinazionali, entrambi sottoscritti dalla stessa Shell, la Corte ha concluso che le disposizioni dei trattati e di altri strumenti in materia di diritti umani, sebbene rivolti prima facie agli Stati, possono avere un impatto sulle relazioni tra privati. Tali norme, infatti, possono contribuire a definire standard generali, come quello del “duty of care” (par. 7.24). Nel suo ragionamento, la Corte ha indicato alcuni criteri su cui valutare una possibile violazione di questo standard ovvero (i) la gravità della minaccia; (ii) il contributo della singola impresa alla creazione del pericolo; e (iii) la relativa capacità di contribuire a combattere tale pericolo. Ecco che imprese come Shell, le quali contribuiscono in modo significativo all’emissione di gas serra e hanno il potere di contribuire a combattere il cambiamento climatico, hanno un vero e proprio obbligo di mitigazione delle proprie emissioni “even if this obligation is not explicitly laid down in (public law) regulations of the countries in which the company operates, companies like Shell thus have their own responsibility in achieving the targets of the Paris Agreement” (anche se tale obbligo non è esplicitamente previsto dalle normative [di diritto pubblico] dei Paesi in cui la società opera, imprese come Shell hanno una propria responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi – par. 7.27). Rispetto a questo passaggio, è importante notare il riferimento della Corte nel corso della decisione ad uno dei principi cardine del diritto internazionale dell’ambiente, soprattutto del regime del cambiamento climatico, e cioè il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate: “[i]n line with the common but differentiated responsibilities principle (CBDR principle), Shell could even be required to make a higher contribution to the global reduction target” (conformemente al principio delle responsabilità comuni ma differenziate [principio CBDR], a Shell potrebbe essere richiesto un contributo maggiore per raggiungere l’obiettivo globale di riduzione delle emissioni – par. 7.72).
Il dovere di diligenza è stato interpretato anche alla luce dell’attuale legislazione europea in ambito climatico. La Corte ha sottolineato che, sebbene alcuni strumenti normativi non fossero ancora in vigore all’epoca della decisione di primo grado, essi non escludono l’esistenza di un ulteriore obbligo per le imprese di ridurre le proprie emissioni. (par. 7.28 ss). Nessun legislatore, infatti, ha stabilito che le imprese che rispettano le normative vigenti siano automaticamente esenti da ulteriori obblighi di riduzione delle proprie emissioni (par. 7.53). Allo stesso tempo, però, la Corte ha precisato che da tale obbligo non si evince automaticamente che Shell debba ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030 e che, quindi, la richiesta dei ricorrenti sia da considerarsi ammissibile.
Ciò premesso, la Corte ha valutato nel merito l’esistenza di un obbligo di riduzione delle emissioni in capo a Shell, come richiesto dai ricorrenti, in relazione alle sue emissioni Scope 1, 2 e 3.
EMISSIONI SCOPE 1 E 2
In relazione all’obbligo di riduzione delle emissioni Scope 1 e 2, la Corte d’Appello dell’Aja ha preso atto del fatto che la concessione di un ordine volto ad impedire la violazione dell’obbligo di diligenza dell’impresa, precedentemente delineato, richiede l’esistenza di una minaccia di violazione del suddetto obbligo. Secondo Milieudefensie, tale minaccia derivava dal fatto che il piano di riduzione delle emissioni di Shell non era allineato con l’obiettivo richiesto, ovvero una riduzione del 45% entro il 2030 (par. 7.64). Pur riconoscendo il percorso di riduzione delle proprie emissioni intrapreso da Shell, la ONG ricorrente riteneva che la politica aziendale della società fosse soggetta a mutamenti e, quindi, non in grado di fornire una garanzia circa il rispetto dell’obiettivo di riduzione (par. 7.64). La Corte d’Appello, tuttavia, ha precisato che per poter imporre a Shell di ridurre le proprie emissioni è necessario accertare l’esistenza di una violazione imminente dell’obbligo incombente sulla società. Considerando che Shell aveva già ridotto alla fine del 2023 le proprie emissioni Scope 1 e 2 del 31% rispetto ai livelli del 2016 e che prevede di ridurle ulteriormente del 50% entro il 2030 rispetto ai medesimi livelli, la Corte ha ritenuto che non fosse stata provata l’esistenza di una minaccia di violazione imminente dell’obbligo di diligenza di Shell (par. 7.65).
EMISSIONI SCOPE 3
Per quanto riguarda le emissioni Scope 3, la Corte d’Appello dell’Aja ha esaminato l’eventuale efficacia del rimedio richiesto e, conseguentemente, l’interesse dell’ONG ricorrente ad agire quale condizione dell’azione stessa.
I ricorrenti avevano richiesto alla Corte di confermare l’ordine di riduzione delle emissioni Scope 3 di Shell del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019. In alternativa, era stato richiesto che tale ordine di riduzione fosse quantificato nel 35% o nel 25% (par. 7.68). Sebbene la legislazione vigente in materia di clima non preveda obiettivi concreti di riduzione per le imprese, la scienza climatica offre indicazioni chiare sui percorsi di riduzione delle emissioni necessari a contenere l’aumento delle temperature globali. In questo contesto, l’identificazione di una soglia di riduzione delle emissioni Scope 3 del 45% entro il 2030 era stata identificata dai ricorrenti alla luce dei rapporti dell’IPCC, i quali indicano come essenziale suddetta riduzione per mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 1,5°C (par. 7.69).
La Corte d’Appello dell’Aja ha ritenuto che tale obiettivo fosse eccessivamente ampio e generico, in quanto non tiene conto della differenza tra i settori coinvolti e le loro specificità. In particolare, i giudici hanno evidenziato che lo standard di riduzione delle emissioni del 45% non considera adeguatamente la differente impronta carbonica di carbone, petrolio e gas (par. 7.74). A tal proposito, la Corte ha sottolineato che, nel caso in cui Shell aumenti le proprie emissioni Scope 3 attraverso una maggiore offerta di gas naturale come alternativa al carbone, a lungo termine, la multinazionale potrebbe comunque contribuire a una riduzione complessiva delle emissioni globali, considerando la diversa impronta carbonica dei due prodotti. (par. 7.79). Pertanto, i giudici hanno stabilito che non fosse possibile imporre a Shell un obbligo di riduzione delle emissioni basato su uno standard globale. Ciononostante, i giudici hanno anche sottolineato che tale conclusione non esonera l’impresa da ogni responsabilità. Ancora una volta, la Corte ha riconosciuto che imprese come Shell devono contribuire attivamente alla lotta contro il cambiamento climatico, anche attraverso la riduzione delle loro emissioni Scope 3 (par. 7.79).
La Corte d’Appello dell’Aja ha anche valutato l’eventuale applicabilità di uno standard di riduzione settoriale, come richiesto dai ricorrenti. In particolare, Milieudefensie aveva notato che il rapporto “Production Gap Report” dell’UNEP del 2021, suggeriva una riduzione del 36% per il petrolio e del 28% per il gas entro il 2030 al fine di mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 1,5°C. Oltre a tale report, la Corte ha valutato ulteriori studi. Ad esempio, il “Net Zero by 2050” aggiornato al 2023 dell’IEA, che suggerisce una riduzione del 28% per il petrolio, del 23% per il gas e del 60% del carbone entro il 2030 al fine del perseguimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Parimenti, sono state esaminate le stime contenuto nell’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC che suggerisce un percorso di riduzione della produzione di petrolio e gas del 30% entro il 2030 e del 65% entro il 2050, equivalente ad una riduzione annuale media del 3% sia del petrolio che del gas tra il 2020 ed il 2030 (par. 7.83).
La Corte d’Appello dell’Aja ha notato che i rapporti scientifici forniti dalle parti offrivano stime divergenti e che, pertanto, non fosse possibile stabilire una soglia di riduzione vincolante, a causa della presunta mancanza di “scientific consensus”.(par. 7.91) Sul punto, non può non essere osservato che per affrontare un tema così complesso sarebbe stato auspicabile un maggior dialogo tra la Corte e le prove scientifiche presente, nonché la nomina di un consulente tecnico d’ufficio in grado di agevolare la lettura e comprensione dei vari percorsi di riduzione delle emissioni presentati.
Nel giungere a tale conclusione, i giudici hanno valutato anche l’applicabilità del già menzionato principio delle responsabilità comuni ma differenziate, e del principio di precauzione. In relazione al primo principio, la Corte ha ritenuto che lo stesso non fornisse una base giuridica su cui fondare uno standard giuridico specifico per Shell nel caso di specie (par. 7.93). Parimenti, hanno ritenuto che il principio di precauzione non giustificasse l’imposizione di un obbligo specifico di riduzione delle emissioni Scope 3, dato che non era in discussione l’incertezza sugli effetti delle emissioni di Co2, ma lo standard da applicarsi al caso concreto (par. 7.95).
Infine, la Corte d’Appello dell’Aja ha valutato l’efficacia di un ordine di riduzione delle emissioni Scope 3. Shell, infatti, si era difesa sostenendo la sua impossibilità nel condizionare il comportamento degli utenti circa le fonti energetiche a cui attingere per soddisfare i loro bisogni. Inoltre, aveva sostenuto che ritenere la stessa responsabile per le emissioni Scope 3 avrebbe significato attribuirle una responsabilità per comportamenti posti in essere lecitamente da terzi parti (par. 7.89).
I giudici non hanno condiviso tali argomentazioni. Pur riconoscendo i limiti di Shell nel ridurre le emissioni Scope 3, la Corte d’Appello ha sottolineato che l’impresa può influenzare il comportamento dei suoi utilizzatori finali (par. 7.99). Tuttavia, la Corte ha osservato che un ordine di riduzione delle emissioni Scope 3 non produrrebbe effetti significativi dato che la domanda di combustibili fossili verrebbe probabilmente soddisfatta da altri operatori del mercato (par. 7.106). Invero, per la Corte, Milieudefensie non è stata in grado di provare sufficientemente il nesso causale tra la limitazione delle vendite e la riduzione delle emissioni. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto la ONG ricorrente non legittimata all’azione per l’assenza di un interesse specifico nella domanda, dato che l’ordine di riduzione delle emissioni Scope 3 non avrebbe garantito un rimedio efficace (par. 7.110).
CONCLUSIONI
La sentenza rappresenta un precedente significativo per il futuro del contenzioso climatico contro le imprese. Riconoscendo che società come Shell hanno una responsabilità diretta nel contribuire agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, la Corte di Appello ha espresso un messaggio chiaro: le imprese non possono più limitarsi a seguire leggi nazionali o politiche governative. Esse devono agire autonomamente per ridurre le proprie emissioni di gas serra.
È tuttavia cruciale considerare le peculiarità del sistema giuridico olandese. L’obbligo imposto a Shell si basa sulle disposizioni del Codice civile olandese, che prevede un dovere di diligenza non scritto, una caratteristica non comune a tutti gli ordinamenti. Va comunque evidenziato che molte giurisdizioni dispongono di norme sulla responsabilità extracontrattuale, utilizzabili in contenziosi simili. Ad esempio, in Italia è in corso una causa contro ENI. In quel caso, le argomentazioni giuridiche dell’attore riprendono quelle del caso Shell, ma l’obbligo di ENI non si fonda su un dovere di diligenza non scritto. Si basa, invece, sulle disposizioni in materia di responsabilità extracontrattuale, interpretate alla luce di strumenti di soft law come i Principi Guida ONU, le Linee Guida OCSE, oltre agli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio come nel caso Shell.
La sentenza Shell offre inoltre spunti rilevanti per il futuro. In particolare, la Corte ha sottolineato, in una sorta di obiter dictum, che i nuovi investimenti di Shell in giacimenti di petrolio e gas potrebbero potenzialmente confliggere con il suo dovere di diligenza. Tuttavia, nel procedimento d’appello, non si è potuta esprimere su tale aspetto dal momento che questa richiesta non rientrava tra quelle della ricorrente. È altamente probabile, però, che i futuri ricorrenti faranno ampio riferimento a questa parte della sentenza per contestare i nuovi investimenti in combustibili fossili.
In conclusione, la sentenza Shell rappresenta un passo cruciale nell’evoluzione delle cause climatiche contro le imprese. Chiarendo ancora una volta la responsabilità delle imprese nella lotta al cambiamento climatico, essa ha confermato un fondamentale precedente legale. Sebbene la Corte d’Appello non abbia confermato integralmente la sentenza di primo grado, ha riaffermato i principi giuridici alla base di quella decisione, che saranno inevitabilmente utilizzati nei futuri contenziosi. È chiaro, tuttavia, come indicato dagli stessi giudici, che spetta al legislatore il compito di individuare dei target di riduzione specifici ed imporre obblighi più puntuali alle imprese.
Citazione suggerita: G. E. Vita, A. Cerofolini. ‘Il caso Shell: oltre la decisione, i principi chiave della Corte d’Appello‘, NOVA Centre on Business, Human Rights and the Environment Blog, 10 Gennaio 2024